La notte del 25 settembre 2005, dopo una notte brava a Bologna, il diciottenne Federico Aldrovandi rientra a Ferrara, saluta gli amici e si incammina verso casa. Alle 7 del mattino, i genitori, preoccupati per il suo mancato ritorno, tentano di chiamarlo ma il suo cellulare squilla a vuoto, finché non risponde un ispettore di polizia, dichiarando che le forze dell'ordine stanno effettuando degli accertamenti. Solo cinque ore dopo la famiglia Aldrovandi viene a sapere la verità sul figlio: Federico è morto sotto gli occhi della polizia. Le cause del decesso restano ambigue e i due coniugi Aldrovandi vogliono fare chiarezza. Se la Storia fa fatica a trovare le sue verità, l'identità di uno stato civile resta spesso celata dietro la benda e la bilancia mal calibrata della Giustizia. Il caso di Federico Aldrovandi si colloca esattamente a metà tra i fatti del G8 di Genova 2001 (piazza Alimonda e scuola Diaz) e la morte di Stefano Cucchi del 2009, e con essi disegna i contorni di qualcosa di terribile e disarmante solo per il fatto di poterle dare un nome: violenza di stato. Le dinamiche di quella notte di primo autunno restano ancora piuttosto oscure (Aldrovandi era solo quando i vicini hanno avvertito la polizia? Si è davvero sentito male prima che intervenissero le autorità?), ma resta un fatto, stabilito dal tribunale di Ferrara il 6 luglio 2009: l'intervento della squadra mobile ha determinato lo schiacciamento del torace del giovane e l'insufficienza respiratoria che ne ha causato la morte. A proposito dei dubbi e delle oscurità irrisolte della storia, si è grati a Filippo Vendemmiati di evitare le macabre rappresentazioni delle ipotesi tipiche dei salotti televisivi e di limitare le ricostruzioni ad alcune sequenze che riguardano la nascita del blog della madre del ragazzo e al coinvolgimento degli attori dell'Arena del Sole di Bologna per interpretare certi atti del processo e alcuni carteggi privati. A proposito delle certezze, invece, il documentario utilizza una struttura narrativa per inserire in una cornice forte e coinvolgente sia il fatto che il messaggio. È stato morto un ragazzo segue un andamento da legal thriller, ripercorrendo con un certo rigore cronologico la crociata della famiglia Aldrovandi, l'evoluzione delle indagini, le immagini del processo, le verità su intercettazioni e insabbiamenti. Ogni tanto Vendemmiati si lascia prendere la mano dal linguaggio della videoinchiesta, inserendo effetti di disturbo o di sovrapposizione “flou” delle immagini della retorica da prime time. Ma l'incalzante resoconto conserva il pregio di essere accurato sotto il profilo della deontologia giornalistica e il “difetto” di risultare insostenibile per qualunque coscienza civica propriamente detta. Nella confusione grammaticale del titolo è perfettamente sintetizzato questo senso di smarrimento e di rabbia verso chi si permette di confondere la transitività dell'uccidere con l'intransività del morire. A morire si è sempre soli, per uccidere si è sempre almeno in due: una vittima e un carnefice.